
Questa città mi fa paura. E non parlo di quella Napoli tornata recentemente alla ribalta per le tristi vicende del Rione Traiano. Quella città che non piange più i suoi lutti, non protesta per il piombo dei revolver, anzi quasi giustifica i suoi guaglioni cresciuti nel deserto delle idee, allattatia furia di kalashnikov e 7 e 65 che, come nelle migliori sceneggiate di Merola, sò sempe piezz’’e core. No, non è questa la città che mi fa paura. Al massimo mi disorienta. Mi lascia sgomento. In questa sorda accettazione dell’ineluttabile. La Napoli che mi fa paura è un’altra. Impalpabile. Invisibile. Eppure reggente. Maesta. Una città che ha saputo ‘mpizzare i suoi tentacoli in ogni pertuso ‘e via. Santa Lucia, Palazzo san Giacomo, Centro direzion1616ale.‘Ncopp’’a ogni segreteria ‘e partito. Manda i suoi figli alla Cattolica o alla Bocconi. Master in economia, in comunicazione, in management aziendale. Porta i guanti bianchi e le camicie firmate. Trase e ghiesce dalle boutique di via Calabritto e dai locali alla moda del Lungomare. D’estate se ne va a Capri, mica a Miliscola. Infesta Posillipo, il Chiatamone, via Petrarca. S’accatt’’e meglio palazze ‘e sta città. E sventra, violenta, cancella. Passa ‘ncopp’’aogni cosa cu na strafuttenza che non ha uguali. Mattia Preti, Vaccaro, Naccherino, ma chi cazzo so’? “Neh, Totò, ma che ce n’amma fa ‘e stu suffitto pittato, vott’’o ‘nterra, aggià piglià ‘o sole”. Città neonata. Sgravata e sputata dalle crepe di quel cataclisma che è questo ventennio. Replica assai più subdola del terremoto del ‘80. Nessun palazzo venuto giù. Nessun cornicione staccato. Solo affarismo, commerci illeciti, protezioni politiche, speculazioni e trasformismo, opportunismo di lacchè senza scrupoli. Papponi e ricottari del ventunesimo secolo. Non più a sfruttare le puttane del litorale Domizio, ma a violentare le idee, una volta chiamate ideali, grazie alla benedizione di nuovi sacerdoti. Vescovi e cardinali che nei Santuari di Piazza Affari o della BCE celebrano una sacra e santa eucarestia. Borghesia affaristica cresciuta e pasciuta sul contrabbando e sul malaffare e che ha saputo riciclare i suoi sporchi “tre denari”. Scommesse clandestine, totip, poker, sale giochi. Tutto legalizzato. La moltiplicazione dei pesci e dei pani. Nessuna coscienza di classe, nessuna storia alle spalle, nessuna memoria storica. Solo gli articoli e i commi di una legge imparata a memoria pe fottere ‘o prossimo. Tant’’o fanno tuttequante! Nessun rispetto, nessuna morale. S’hanno vennuto ‘e figlie pe s’accattà ‘a città. Piani regolatori di sopra e di sotto. Varianti ad est e ad ovest. Con la sacra benedizione dei giansenisti di questa Nuova repubblica, mandati a Strasburgo o a palazzo Madama grazie ai voti di scambio accattati in qualche corridoio del Tribunale. Feccia legalizzata che assume il potere. Nuovo motore economico di questa nazione allo sbando. Cancrena partorita dall’affarismo più bieco. Miasmi velenosi che calpestano i libri con le loro Hogan firmate, scamazzano i sogni con i loro pneumatici di morte, sputano sulla storia con le loro bocche impastate di extasty. Nuovo asse portante di questa città che cresce come una epidemia.Ato ca culera. Peggio di un virus. Più temibile del HIV, peggio dell’Ebola. Una marea umana che cresce aritmo esponenziale. E Contagia. Fa proseliti. Aizza le folle. Evangelizza le masse. Converte chi non crede a bott’’e miracoli. Altro che Lazzaro e nozze di Cana. Oplà, ecco il nuovo centro commerciale venuto su in una notte. E dieci ristoranti accattati vascio Marechiaro. Dove “li pisce non fanno chiù ammore” ma abballano la macarena tra gli stereo appicciati, al massimo volume, dei cabinati di lusso. Mentre “‘o sole mio se ne fuie” e dieci cento “Carulì” alluccano “Ti amo” ai concerti tutti “sold-out” di Gigione. Unghie pittate. Orecchini alla moda. Si strafocano una pita e, intanto, dicono ai figli loro, in quella nuova lingua bastarda chiena-zeppa di emoticon e tvb: “‘O bbì, piccirì? Tutto questo domani sarà tutto tuo”.
Napoli del duemila. Nuova città da celebrare. Megalopoli da santificare. Ninive linguistica del Terzo Millennio. Futuro disperato di questo scellerato presente.