giovedì, Aprile 24, 2025

La cultura dell’impunità

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La nostra è la cultura delle belle parole, del detto e del non fatto, dei buoni propositi, delle regole che solo gli altri pare siano tenuti a seguire e del cui rispetto il soggetto moralizzatore di turno sembra essere dispensato, spesso fregiandosi di una sorta di aura di innocenza che ha il sapore dell’arroganza frammista a ignoranza, protervia e inciviltà. Il filo rosso su cui ci stiamo tenendo in equilibrio è molto fragile, già logoro, più volte rammendato (male) e ora sull’orlo della lacerazione definitiva. Il nostro Paese ha stancato, diciamolo chiaramente. È inaffidabile, talmente tanto da suscitare una sorta di irritazione e di intolleranza nei confronti di coloro che lo abitano e lo governano. Vi è una sfiducia reciproca ormai dilagante, il sospetto nei confronti dell’altro ha preso il sopravvento su una sana cultura liberale della fiducia nel prossimo, nella possibilità di un coordinamento degli sforzi individuali mirante al nobile scopo del progresso civile e sociale. Il noto politologo Angelo Panebianco, qualche tempo fa, ha giustamente notato come l’evidente conseguenza di una siffatta struttura sociale sia un’abnorme produzione normativa, una sovraordinazione assoluta della norma come strumento regolativo allo scopo di calmierare e gestire un calderone sociale ribollente di anarchia, prevaricazione e assenza di valori e principi condivisi su cui fondare una quantomeno accettabile convivenza civile. Bene, in questi giorni siamo spettatori di un paradosso: il rifiuto persino di un tale schema regolativo. Le tristi vicende politiche cui stiamo assistendo non possono che far emergere un affliggente senso di frustrazione per la totale mancanza di accettazione (e quindi di rispetto) delle più elementari strutture istituzionali su cui si fonda il funzionamento di uno Stato di diritto. In questa sede eviteremo di soffermarci sulle irresponsabili dichiarazioni di alcuni esponenti politici di vertice atte a paventare guerre civili o consimili sciocchezze (esternazioni tuttavia pericolose in un contesto di elevata tensione come quello attuale). L’indignazione e lo sconcerto montano invece per il grave rifiuto di accettare un verdetto sfavorevole in nome di una difesa ad oltranza dell’indifendibile. E non si tratta nemmeno di ergersi a paladini della magistratura, un potere che, come gli altri, non è certo esente da errori, da colpevoli parzialità e da abusi. Resta il fatto che il comportamento del Pdl appare onestamente inaccettabile, si sta oltrepassando ogni ragionevole limite di tollerabilità. Inaccettabile non rispettare una sentenza giunta dopo tre gradi di giudizio; inaccettabile pretendere che l’ormai pregiudicato Silvio Berlusconi debba continuare a guidare un partito politico solo perché forte di milioni di voti (una logica assurda, perniciosa e potenzialmente foriera di inquietanti conseguenze); inaccettabile che un partito guidato da un condannato si arroghi il diritto di dettare l’agenda di un governo tenendolo in ostaggio; inaccettabile l’arroganza con la quale si pretende l’impunità senza se e senza ma; inaccettabile la messa in discussione della legittimità (perché di questo si tratta) di uno dei tre poteri fondamentali di quello Stato di diritto precedentemente richiamato. Peraltro, ma in ciò, naturalmente, non vi è nulla di illecito, è comunque inquietante la prospettiva della permanenza della famiglia Berlusconi alla guida di uno schieramento politico così importante. Sembra di tornare ai tempi dei regimi ereditari, e non è certo tranquillizzante la possibilità che, tra qualche decade, gli storici possano magari parlare della “dinastia” dei Berlusconi alla guida dell’Italia così come si faceva con i Savoia in epoca monarchica o con i Borbone nel Regno delle due Sicilie. Previsioni storiche a parte, il punto è un altro: se la stessa classe politica (o parte di essa) non ha più il benché minimo rispetto per le istituzioni sulle quali si fonda questo Paese, perché mai queste ultime dovrebbero essere rispettate dai cittadini? La portata sociale, culturale e civica di un tale atteggiamento è distruttiva, e per questa via si aprono le porte della completa anarchia sociale, un’anarchia tale per cui anche quello stesso apparato normativo di cui sopra non sarebbe più in grado di contenere le spinte centrifughe di una società frammentata e in perenne divisione. Il momento è tra i più bui, il passaggio è delicato. Alla crisi economica si accompagna una drammatica crisi di valori che pone in discussione anche le più basilari regole della convivenza civile, regole essenziali per edificare una moderna società democratica (altro termine usato troppo spesso con poca cognizione). Chi scrive pensa che vi siano molti cogenti indizi atti a far ritenere responsabile di una tale situazione una classe politica colpevole di aver contaminato irrimediabilmente quei tre poteri suddetti che dovrebbero invece rimanere immuni da reciproche commistioni, una classe politica indolente, ipocrita, impunita, immeritevole e impreparata, oltre che sommamente irresponsabile. Ma molto, molto fortunata. In un’altra epoca avrebbe rischiato grosso.

Davide Parascandolo

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