
L’Italia vive una crisi profonda che è anche culturale. Per farvi fronte, i provvedimenti necessari, economici e di adeguamento istituzionale, non sono neutri nella loro ricaduta sulle parti sociali, secondo che siano ispirati dalla destra o dalla sinistra: quelli presi fino ad ora hanno arricchito il dieci per cento degli italiani già ricchi e impoveriti tutti gli altri.
In ogni caso, perché essi realizzino risultati apprezzabili e duraturi, si dovrebbero accompagnare con una vera rivoluzione culturale, come quella che portò i nostri padri a stilare la Carta Costituzionale più avanzata e moderna del mondo e che oggi ci potrebbe guidare ad attuarla finalmente in tutte le sue parti. Solo allora e quando i principi che la Costituzione ispira, i diritti che essa dà e i doveri cui chiama saranno vissuti dalla stragrande maggioranza dei cittadini, potremo ritenere compiuta la nostra democrazia e considerarci in possesso degli anticorpi sufficienti per difenderla con successo, insieme al nostro benessere, anche in momenti difficili come quelli che stiamo vivendo.
Dopo più di sessanta anni, questo non è, perché è mancato il convergente agire di Stato, scuola e famiglie, con la conseguenza che anche per la Costituzione è avvenuto quello che si verifica in Italia per ogni legge di vero cambiamento: se ne ritarda a lungo l’attuazione, per poi dire che è obsoleta e che necessita una nuova legge, con l’obiettivo di ripristinare eventuali privilegi perduti. Due esempi illuminanti sono la riforma sanitaria e le leggi di decentramento dei poteri dello Stato.
Durante la prima Repubblica, a una tale lacuna hanno parzialmente sopperito i partiti, le organizzazioni sindacali e professionali, che, però, hanno svolto il compito guardando, e non poteva essere diverso, preminentemente agli interessi dei propri rappresentati. Con la cosiddetta seconda Repubblica si è affievolita l’azione delle organizzazioni sociali, si è esaurita quella dei partiti, mentre quella dei governi è stata, spesso, addirittura di contrasto; hanno fatto eccezione i Presidenti della Repubblica e rappresentanti della cultura e dello spettacolo come Roberto Benigni e Roberto Saviano.
Si sono prodotti, così, danni incommensurabili alle coscienze dei cittadini, soprattutto dei giovani. Sono stati colpevolmente incoraggiati, da parte di chi ha governato, devianti convincimenti. Il lavoro che l’art. 4 della Costituzione sancisce come un diritto per il quale la Repubblica “promuove le condizioni” che lo rendano effettivo, spesso, specialmente al Sud, è divenuto un obiettivo raggiungibile solo se si conosce “un santo in paradiso”, non, come dovrebbe essere, per meriti e, quando è necessario, attraverso la lotta che se è comune risulterebbe vincente. Il dovere, disciplinato dall’art. 53 della Costituzione, di tutti gli italiani a contribuire alle esigenze della Patria in ragione della loro capacità contributiva con criteri di progressività, si è trasformato, specialmente al Nord, in un un obbligo cui sfuggire con furbizia perché imposto da uno Stato nemico. Considerazioni simili si potrebbero esprimere per i diritti allo studio e alla salute, per il dovere di essere fedele alla Repubblica o per quello spettante ai dipendenti pubblici nei confronti dei cittadini.
Ecco, la rivoluzione da fare è quella che ribalti queste convinzioni e aiuti i cittadini a essere artefici del proprio futuro: il compito perché questo avvenga è di tutti, ma in primo luogo dei governi, della politica e della scuola.
Io penso che i governanti dovrebbero mostrare fiducia nei confronti dei cittadini italiani e dire loro sempre la verità; dovrebbero considerarli, con i loro problemi e le loro attese, al centro di ogni scelta; dovrebbero decisamente puntare su di loro per rilanciare il nostro Paese perché, credo, che sia ancora valido dire come Rita Levi Montalcini che “bisognerebbe essere felici di essere nati in Italia per la bellezza del capitale umano maschile e femminile”.
Antonio Simiele