In una lettera indirizzata ad Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini scriveva così: “se avessi potuto fabbricarmi un figlio su misura, me lo sarei fabbricato pari pari come te”. Era la risposta, quasi il rimbalzo affettivo di quel che Rossi, in una espansione del cuore, gli aveva confidato due anni prima: “A te devo più riconoscenza che ad ogni altro uomo. Col tuo esempio mi hai impedito di cadere in uno sterile scetticismo; hai dato un significato alla mia vita”. Questo brano introduce alle tante e tante lettere – seicentotredici, per la precisione – raccolte in volume da Mimmo Franzinelli (Dall’esilio alla Repubblica, Bollati Boringhieri, pagg.994, euro 55) e che stanno lì, a documento dell’intesa intellettuale e della corrispondenza di affetti fra Salvemini e Rossi. Intendiamoci: non è che l’uno fosse il replicante degli umori e delle opinioni dell’altro. Se le cose stessero così, l’epistolario riuscirebbe insopportabilmente tetro ed uggioso. E invece no: è fermentato dal lievito delle critiche e dei dissensi, sempre franchi, sempre diretti e leali, come si conviene tra sodali. Discordanti, per esempio, erano i giudizi sul Partito d’Azione, al quale Rossi aderì e che Salvemini fulminò come “fonte di equivoco e confusione”; furono differenti le opinioni sulla Federazione Europea, che Rossi traguardava come un obiettivo indifferibile e che Salvemini invece deprimeva come “castello in aria”; anche diverse erano le valutazioni sulle forze laiche: più aperte e flessibili in Rossi; gorgoglianti di furore in Salvemini che rimproverava ad esse un laicismo ciabattone e rinunciatario (il loro “laicismo – scriveva – è come i coglioni del mulo che li ha per coglionatura”). Va da sé che queste divergenze e queste frizioni erano legate alle congiunture della vita politica; cangianti e mutevoli, perciò, come solo la vita politica sa essere. Ma mentre sotto di loro le combinazioni della politica scavavano il terreno, sopra il ponte restava. Nonostante gli urti. Nonostante l’attrito. Sicché, veramente, chi dice Rossi dice Salvemini (e viceversa). Intanto la logica che informa i loro scritti è la stessa: stringente, incalzante, che nulla concede alle frasi bombeggianti e che mai affonda in guazzabugli incomprensibili. Così come entrambi furono mossi dalla stessa passione della giustizia, e identico fu il loro istinto di libertà. Sorgenti morali, queste, limpidissime che col passare degli anni trassero Rossi e Salvemini a promuovere lo stesso tipo di liberalismo; un liberalismo arricchito da trasalimenti egualitari, le cui ascendenze empiriche li trattenevano dall’involarsi nel cielo delle astrazioni. Non il Progresso, la Rivoluzione o il Popolo li interessava, ma lo studio dei problemi concreti specie se questi problemi tradivano angherie e soprusi sugli umili. E’ allora che Rossi e Salvemini davano il meglio di sé: documentate fino alla pignoleria, le loro denunzie inchiodavano i responsabili alle proprie colpe. Il tutto senza indulgere al melodramma e tenendosi discosti dalle pose dei predicatori di quaresima. Stando così le cose, si capisce perché un simile magistero era destinato a subire l’ingiuria dell’oblio. Nessuno era interessato a riscoprirlo perché nessuno, proprio nessuno, venne risparmiato dalle loro bordate polemiche. Non i cattolici, ai quali Rossi e Salvemini imputavano l’allentamento della fibra morale degli italiani. Non i comunisti, che Rossi aborriva per le implicazioni totalitarie dei loro programmi economici e a cui Salvemini rimproverava la stessa religione dei cattolici, sia pure nella versione secolarizzata del marxismo. Non i liberali, di cui Rossi denunciava i sofismi con cui tradivano i principi della libertà (anche economica) e che Salvemini invitava ad “abbandonare la sigla PLI … ed assumere quella di PPP, cioè Partito delle Puttane Pubbliche”; non infine i socialisti, che pure erano i meno lontani dalle loro aspirazioni, e che entrambi strapazzarono come “comunisti mal riusciti”. Se è vero perciò che Salvemini e Rossi distribuivano le loro bastonate a destra e a manca, si capisce bene perché fino ad ieri nessuno organismo politico fosse interessato al loro lascito intellettuale. Oggi però che le idealità liberali sono meno estranee all’orientamento degli spiriti, è lecito attendersi una maggiore attenzione per un pensiero che non è invecchiato. Purché, beninteso, questo pensiero venga conosciuto (a quando la ristampa delle “Opere” di Salvemini?). Intanto questo volume di Franzinelli va salutato così, come un segno dei tempi e, insieme, come motivo di rinnovate speranze.


Gaetano Pecora

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